Bianchi

dal 27 ottobre 2016

A cura di Eduardo Cicelyn

la pittura di domenico bianchi affronta il rischio dell’incertezza dei punti di vista disponendo un reticolo geometrico, modulare nella sua sensualità materica. si tratta di una struttura ripetitiva che ritorna sempre, ovunque, fissando un solo punto possibile di raccoglimento dello sguardo. la forma del quadro combatte con lo spazio che lo espone e vi si dà per dislocamento, come il luogo che cambia restando fermo al suo posto, nel centro che è il punto perfetto. e’ semplice osservare come i lavori di questo artista sembrino sempre uguali a se stessi e, viceversa, come ogni mostra sia sempre diversa dalle altre. la struttura formale è invariabile, mentre si modifica il contesto e si alterano le condizioni percettive. il quadro è uno e perciò divisibile all’infinito. chi guarda i molti non vede nè l’uno nè l’infinito. la pittura di bianchi si presenta come una personale, ostinata riflessione sui modelli costruttivi e sulle dinamiche sensoriali del quadro. forma e contenuto, tuttavia, non cedono mai all’intenzione soggettiva. come in un’antica cosmologia, sembra che siano le materie prescelte – spesso la cera e il legno, sulle quali l’artista lavora da scultore o architetto, incidendo ed elaborando complessi tracciati reticolari - a determinare lo spessore traslucido o specchiante da cui viene l’immagine. quasi la forma non si imprimesse alla materia per diventare questa o quell’altra figura e indugiando sensualmente in se stessa fosse da sempre l’insieme di quella materia e di quella forma. e’ il luminoso “tutto insieme” del sinolo aristotelico. con bianchi la pittura torna a essere sostanza immutabile, che contiene già in sé ogni possibilità di sviluppo: e così la figurazione può replicarsi dal piccolo al grande o estendersi su superfici sempre più ampie secondo una modulazione seriale; oppure svolgersi secondo le linee di una cartografia mentale sempre rinnovata, anch’essa potenzialmente seriale e infinita.se pensiamo l’accumulo e la ripetizione delle immagini in questa e in ogni altra mostra come il ritmo lento della sostanziale immutabilità della materia pittorica, vedremo formarsi la piega “orientale” di un’arte per tanti versi molto logica ed occidentale. nonostante la consapevole impossibilità di rappresentare, benché la tela sia l’unico spazio reale e la figurazione si privi di ogni emotività addirittura ricorrendo alle formalizzazioni del computer, proprio in questi luoghi desolati della modernità dispiegata, bianchi prova a riscrivere l’antico testo della pittura con una calligrafia che sospende il senso delle immagini senza renderne ostile e incomprensibile il linguaggio. l’impressione poetica ed estetizzante delle sue composizioni, in fondo del tutto insignificanti e forse proprio perché tali, viene dalla grazia e dalla lucentezza di una pittura sintetica al pari di una scrittura che, come nello haiku giapponese, non approda a nulla, ma può prolungarsi all’infinito conservando la freschezza e lo splendore dello sguardo iniziale. nessuna descrizione, nessun commento, nessuna finalità, nessuna poetica. solo un metodo. la pittura di bianchi è una serie di gesti a vuoto da cui, di volta in volta illuminati, aspettiamo inutilmente la visione finale, quella definitiva. non c’è e non ci sarà: la luce è un fenomeno che va e che viene, esatto è solo il gesto rituale dell’artista, vera è la lingua del pittore. mai cambierà la sostanza dell’arte.

Bianchi